V. Ascani: Architetti e scultori del Duecento dalla Toscana alle Alpi

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Titel
I maestri di Arogno. Architetti e scultori del Duecento dalla Toscana alle Alpi


Autor(en)
Ascani, Valerio
Erschienen
Lugano 2019: Fontana Edizioni
Anzahl Seiten
341 S.
von
Mirko Moizi, Accademia di architettura, Università della Svizzera italiana

Spesso classificati come Magistri comacini o Maestri campionesi, i maestri di Arogno sono trattati per la prima volta in questo libro entro un quadro unitario dalla fine dell’XII a quasi tutto il XIII secolo, che fa emergere, tra saghe familiari e dinamiche sociali che sottostanno all’organizzazione delle botteghe e alla gestione dei cantieri a queste affidati, le specificità dei singoli artefici, ma pure quelle dell’intero gruppo. Quello proposto da Valerio Ascani è un viaggio che dal piccolo villaggio dell’attuale Cantone Ticino porta in varie località della Toscana, quali Pisa, Prato, Pistoia, Lucca e Firenze, arrivando fino a Trento e pure a Salisburgo; cinque capitoli nei quali viene ricostruito, anche grazie a un ricco apparato iconografico (circa 400 fotografie a colori), l’operato delle più importanti botteghe arognesi, dai maestri principali ai loro figli, ai nipoti e ai collaboratori: su tutti, Guido da Arogno (alias Guidetto da Como), Guido e Guidobono Bigarelli e Adamo da Arogno.

Muovendo dalle tracce epigrafiche e documentarie emerse in particolar modo negli ultimi anni, che hanno anche permesso all’autore di rivedere alcune sue precedenti posizioni e di confermarne altre, Ascani delinea un percorso incentrato non solo sul “fare scultura/architettura”, ma pure – più in generale – sulle problematiche storiografiche legate al tema della migrazione degli artisti die laghi, sulle motivazioni storiche che hanno portato gli Arognesi ad assumere una più che discreta importanza nel panorama della storia dell’arte italiana medievale e sulla rilevanza della committenza negli spostamenti – o nei mancati spostamenti – di queste maestranze. Ed è in particolar modo quest’ultimo aspetto a rappresentare una sorta di fil rouge che, parallelamente alle questioni storico-artistiche, attraversa l’intero volume e ben chiarisce, all’interno della produzione degli Arognesi, la costante tensione tra stanzialità, che si traduceva nella continuità dinastica all’interno di un unico cantiere, e frequente mobilità, con gli spostamenti che erano favoriti anche dalla collaborazione tra gli stessi maestri di Arogno e alcuni ordini monastici.

È in questo contesto che, tra conclusioni ancorate a solide basi, ragionevoli ipotesi e argomenti irrisolti, prende il via la ricostruzione dell’attività di queste maestranze; iniziando da Guido da Arogno, un artista il cui stile come definito in queste pagine si mostra caratterizzato sì da quel sostrato culturale e artistico lombardo-ticinese che contraddistinse l’operato degli artisti dei laghi, ma al contempo risulta rapportabile a esperienze “altre”, in una sorta di commistione stilistica e continuo aggiornamento tipico pure di altri Maestri arognesi. Il quadro che affiora è quello di uno scultore di primo piano, probabilmente il principale artefice della produzione artistica nella Toscana nord-occidentale fino all’avvento del più noto Nicola Pisano, e cosciente del ruolo che aveva, tanto da incidere il proprio nome sulla facciata della cattedrale di Lucca: un gesto che, così come la firma di Lanfranco Bigarelli sul fonte battesimale di San Giovanni in Corte a Pistoia, dimostra sempre di più – se ancora ve ne fosse bisogno – quanto la (auto)celebrazione dell’artista non sia stata pratica comune esclusivamente dal Rinascimento in poi. Ma non solo: l’approfondita analisi qui condotta su Guido da Arogno lo presenta pure come uno scultore capace di confrontarsi (e con lui la sua bottega) con le novità provenienti dalla Francia e, al contempo, in grado di misurarsi con la tradizione classica, attraverso il recupero di iconografie e tipologie decorative tratte dai sarcofagi romani facilmente visibili a Pisa allora come oggi, secondo un protoclassicismo che, sebbene frammisto a elementi desunti dai consueti bestiari medievali, pone Guido quale (parziale) anticipatore di quanto avrebbe fatto, di lì a breve, il già citato Pisano.

Ed è anche partendo da queste iconografie, comuni a più cantieri toscani in cui si ipotizza l’intervento di maestranze arognesi, che si avanzano alcune proposte per l’attività di Guido in quelle zone. Va però detto che, ad un primo impatto, alcuni confronti proposti potrebbero non apparire pienamente congruenti dal punto di vista stilistico. Ma tant’è, in quanto è lo stesso Ascani a suggerire che i cali qualitativi e le differenze di resa tra le singole opere andrebbero giustificati con la concreta possibilità che non tutte le sculture siano state eseguite dal capo bottega, seguendo modalità lavorative e un approccio alle opere a più mani tipici delle botteghe lombarde attive in età romanica. Ecco dunque che le sculture in questione, quando non realizzate direttamente dal direttore dei lavori o dalla sua stretta cerchia, potrebbero essere state eseguite dalle varie maestranze attive nei diversi cantieri, oppure da altre botteghe di differente formazione (e di differente livello qualitativo) indicate dai committenti o assunte in loco in base alla disponibilità, che comunque seguirono i disegni e le indicazioni dati loro dallo stesso direttore.

Si tratta tuttavia di una questione che si riflette anche nella terminologia adottata nel testo, con “bottega”, “cantiere” e “scuola” che sembra vengano talvolta impiegati con accezioni molto fluide, quasi come sinonimi; e se nel Medioevo, come spiegato dall’autore, la gestione di un cantiere era in effetti solitamente affidata ad una singola bottega, cosa che in un certo senso implica una reale sovrapposizione semantica tra i due termini, viene comunque da chiedersi se al posto di impiegare il termine “scuola”, espressione che ha assunto ormai una connotazione più legata a esigenze storiografiche che non alla reale volontà di un artista di creare proseliti, non sia più corretto parlare di influenza di un determinato maestro nei confronti dei suoi colleghi meno affermati e di circolazione di soluzioni iconografiche nate negli ambienti in cui egli operò, dando un’interpretazione che nulla toglie all’importanza assunta da un artefice nei suoi luoghi e nel suo tempo.

Ad ogni modo, l’impianto del libro è solido e porta alla luce una serie di relazioni (familiari, sociali e, soprattutto, artistiche) finora mai sottolineate così esplicitamente. Illuminanti in tal senso sono le considerazioni offerteci in riferimento ai Bigarelli, una dinastia di artisti che, anche in associazione con altri Arognesi, operò dalla Toscana al Trentino e contribuì, forse più di altre, alla diffusione dello stile e degli schemi iconografici più o meno comuni impiegati all’interno delle singole botteghe; una continuità stilistica ed estetica che, tra racemi classicheggianti e riferimenti protogotici, trova forse nelle similitudini che accomunano i telamoni dell’ex abbaziale di San Bartolomeo in Pantano a Pistoia e quelli della cattedrale di Trento la dimostrazione più eloquente.

E la panoramica offerta in questo libro si chiude proprio con un focus sul cantiere trentino, del quale l’autore ricostruisce nel dettaglio le varie tappe e le vicende storico-artistiche che lo caratterizzarono: dall’arrivo di Adamo da Arogno fino all’avvento dei Campionesi, passando per la discendenza del primo e per gli intrecci familiari fra questa e altri clan arognesi, secondo una puntuale analisi che dimostra ancora una volta come Ascani, pur in assenza di dati certi, riesca a sviscerare articolate ipotesi sulle varie fasi di un edificio, riassestando cronologie e chiarendo allo stesso tempo le influenze culturali (nicoliane e antelamiche nel caso trentino) che contraddistinsero l’attività dei singoli artefici lì
operanti.

Zitierweise:
Moizi, Mirko: Rezension zu: Ascani, Valerio: I maestri di Arogno. Architetti e scultori del Duecento dalla Toscana alle Alpi, Lugano 2019. Zuerst erschienen in: Archivio Storico Ticinese, 2020, Vol. 168, pagine 170-172.

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Zuerst veröffentlicht in

Archivio Storico Ticinese, 2020, Vol. 168, pagine 170-172.

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